Gli IMI, la resistenza dimenticata. Il monologo teatrale vuole riportare alla luce l’esperienza dei soldati italiani internati nel ’43 nei lager nazisti per essersi rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò.
La storia di Carlo viene ricostruita principalmente attraverso i ricordi familiari, le narrazioni trasmesse prima alle figlie e successivamente custodite dalle nipoti. Sono narrazioni orali che nei vari passaggi da un componente all’altro della famiglia perdono forse qualche frammento. Tuttavia, la storia viene preservata e diventa materiale prezioso per iniziare a scrivere.
La storia si articola in due parti: la vita nel campo di concentramento e il ritorno a casa.
Tutto ha inizio con un lungo viaggio: “Il viaggio durò parecchi giorni, a turno guardammo dalla feritoia del vagone cercando di intuirne la direzione, mi ricordo che sfilavano stazioni con nomi sempre più incomprensibili, città bombardate, villaggi, campi di girasole e poi foreste e ancora foreste. Mentre una geografia inquietante iniziava a delineare i confini di questa destinazione misteriosa, un silenzio irreale dominava lo spazio del vagone nonostante fossimo in tanti e tutti ammassati, corpi contro corpi, ma ognuno avvolto nei suoi pensieri, nelle sue angosce.”
La prima parte del monologo, ambientata nel lager, racconta la deprivazione, la fame, la borsa nera, la violenza, la nostalgia del passato, la disperazione, l’amicizia e la collaborazione tra i compagni, il lavoro coatto e la fatica di sopravvivere. È una quotidianità raccontata attraverso i colori, i suoni e i ritmi del campo.
“Il cielo che ci ha accolto all’arrivo e nelle settimane successive era plumbeo, raramente si intravedevano tra le nuvole i riflessi di un sole pallido che si infrangevano presto sul metallo del filo spinato. Erano rari momenti di luce di un inizio di autunno che si preannunciava pesante. Il grigio del cielo rendeva tutto uniforme e sembrava di vivere in un mondo monocolore. Gli stracci che indossavamo, il selciato che calpestavamo, le baracche, le ciotole che contenevano il nostro rancio ma anche lo stesso cibo sembrava assumere il colore di questo cielo minaccioso. Il grigio e il nero erano i colori dominanti degli oggetti e del paesaggio che ci circondava. Erano tinte scure in sintonia con l’apatia di una vita trascorsa in attesa della morte, di chi fa fatica a coltivare la speranza del ritorno.”
I suoni del lager sono anche le urla dei nazisti che diventano una costante nella vita dell’internato. Come la campana che tutte le mattine preannuncia l’adunanza nel grande cortile, oltre ai suoni dei deportati …
“Il rumore dei cucchiai che raschiavano le ciotole di metallo traducevano in una strana musica la fame cronica che non ci dava tregua. Mentre altri suoni mettevano a nudo le nostre fragilità e mi riferisco ai pianti o ai mormorii nell’oscurità della notte di coloro che pregavano alla ricerca disperata di un dio, che forse ci aveva dimenticati o chissà per quale motivo ci aveva riservato quella sorte. Per la maggior parte di noi, che un dio non ce l’aveva più, era tutto così assurdo e incomprensibile. Così come lo era la guerra.”
Nel luglio del 1945 Carlo torna a Lodi. Questa seconda parte del racconto si focalizza sull’intreccio fra ricostruzione personale e collettiva, sul senso di colpa nei confronti della famiglia, sull’indifferenza verso la loro storia da parte di una società non ancora pronta a fare i conti con le deportazioni.
L’arrivo dei treni carichi di deportati è un momento di euforia generale: “Ricordo ancora il rimbombante fischio del treno sotto la grande galleria mentre si avvicinava al binario, come per sottolineare che quello fosse un momento di festa dell’intera città. Ricordo i volti dei compagni di Milano appiccicati ai vetri sporchi dei finestrini alla ricerca di volti familiari, le urla di gioia delle persone che si accalcavano sul marciapiede del binario in attesa dei propri cari ma anche per rendere omaggio ai militari deportati.”
Questa euforia si traduce però presto in un muro invisibile ma reale che li relega a una solitudine ingiusta.
“Eravamo stranieri nelle nostre città, nelle vie e nelle piazze un tempo familiari. Eravamo vittime di un passato che non poteva essere condiviso ma ci sentivamo al contempo un po’ eroi. Era una strana ambivalenza che ha segnato le nostre vite per un lungo periodo. Fino a quando il mondo ha iniziato ad interessarsi di noi e le nostre narrazioni sono state raccolte e pubblicate, e le generazioni hanno letto e capito. In quel momento è iniziata la nostra rinascita. Anche noi finalmente potevamo parlare liberamente dei lager senza paura di essere incompresi o ancor peggio derisi.”
Anche il contesto familiare ha richiesto attenzione e cura. Quando Carlo riabbraccia la sua famiglia, la figlia più piccola (di 5 anni) lo rifiuta con un pianto che gli procura dolore, un pianto che Carlo carica di simboli e significati: “Mi sono sentito respinto dal pianto innocente di una bambina ed ho iniziato a chiedermi se tutto potesse tornare come prima della partenza per la Germania. Come un film che dopo la visione si riavvolge e ricomincia dal punto desiderato. Questo ovviamente non era possibile, ho capito che ogni ricostruzione non può che passare dalla consapevolezza e dal dolore. E così il ritorno è stato anche un susseguirsi di dubbi, rimorsi, domande alla ricerca di certezze e assoluzioni. Il senso di colpa nei confronti della mia famiglia, prima assopito dalla detenzione, una volta tornato a casa è riemerso con forza.”
Ma Carlo non ha dubbi sul valore della sua scelta: “Quando penso alla scelta fatta mi sento veramente un uomo felice. Felice di aver contribuito a rifondare il nostro Paese. Mentre l’Italia ricostruiva sé stessa, materialmente e idealmente, noi ex deportati eravamo impegnati in una ricostruzione personale che si intrecciava alla storia di quella che sarebbe stata la futura Unione Europea. È stato un passaggio difficile, perché l’esperienza del lager non è solo un ricordo ma è uno stato dell’anima che non si può e non si deve cancellare.”
La storia di Carlo vuole stimolare la preservazione della memoria ma anche il suo utilizzo come strumento utile per interpretare il presente. “Per essere cittadini liberi dobbiamo abituarci a vedere oltre ciò che semplicemente appare o ci viene detto. Quanti muri, quanti fili spinati, quanti campi di detenzione separano ancora oggi cittadini liberi da ‘non cittadini’? E l’indifferenza che ruolo ha in tutto questo? A voi le risposte alle guerre, alle ingiustizie e alle violenze, io ho detto ‘no’.”
Quel NO scritto da Carlo sul berretto indossato durante il viaggio di ritorno è tutto ciò che ha portato a casa, e che rappresenta simbolicamente la sua esperienza di resistenza civile.
Il progetto nasce con la finalità di trasformare la storia di Carlo in uno strumento di “memoria attiva” dedicato alle nuove generazioni. Suo obiettivo principale è stimolare l’immaginazione e l’immedesimazione, far emergere emozioni e curiosità, trasmettere dubbi, interrogativi, voglia di indagare e approfondire anche i contesti attuali caratterizzati da violenze e discriminazioni. Contesti nei confronti dei quali sarebbe opportuno esprimere un NO. Una forma di resistenza, una scelta etica che riguarda le vicende del presente e che si lega in qualche modo al passato.
Paolo Pintabona (attore e regista) porta in scena il testo di Antonella Asti, nipote di Carlo.
Casa della Memoria di Milano
Via Federico Confalonieri, 14 Milano – M5 Isola/M2 Gioia/Garibaldi
19 ottobre 2024, ore 21:00
Memoria di un ritorno. L’importanza di dire NO
Durata: 60 minuti
Monologo teatrale
Tratto dal testo «Ho detto No» di Antonella Asti
Adattamento teatrale, regia e interpretazione: Paolo Pintabona
Assistente alla regia e video maker: Martin Leandro Palacios
Suoni e musiche: Giuseppe Calisti Randazzo
Ingresso gratuito, libero fino a esaurimento posti
Promosso da:
AIVITER, Associazione Italiana Vittime del Terrorismo e dell’eversione contro l’ordinamento dello Stato
ANED, Associazione Nazionale ex Deportati nei campi nazisti
ANEI Milano, Associazione Nazionale ex Internati nei lager nazisti
ANPI Milano, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Associazione Piazza Fontana 12 dicembre 1969
Istituto Nazionale Ferruccio Parri (ex INSMLI)
https://www.casadellamemoria.it/
https://sites.google.com/view/ho-detto-no/home