Tutela della qualità, la sfida del commercio internazionale

    Con il regolamento n. 2081 del 1992, l’Unione europea ha varato la prima legislazione per la protezione dei prodotti agricoli e alimentari a indicazione geografica (Dop, Igp e Stg). Dal 2008 lo schema Ue può essere applicato anche ai vini. Dal 1992 a oggi il registro Ue della qualità è cresciuto in modo esponenziale e l’Italia è leader per numero di prodotti riconosciuti. Dei 1.400 alimenti iscritti al registro ufficiale, 295 sono italiani. Dei quasi 1600 vini, 526 provengono dalla penisola. Su scala nazionale il fatturato di Dop e Igp è di 14,8 miliardi l’anno, l’11% del totale del comparto agroalimentare.

     

    Le tre denominazioni, Dop, Igp e Stg, accordano tutela giuridica ai prodotti in virtù di caratteristiche particolari legate all’origine in un territorio specifico. Le differenze tra loro si basano sulla ‘vicinanza’ al territorio in questione. Per avere un riconoscimento Dop tutte le fasi di produzione devono essere svolte in un’area geografica specifica, nelle Igp può bastare solo una, le Stg hanno un legame con il territorio ancora meno stretto.

     

    La protezione ha una doppia valenza, culturale ed economica: secondo il regolamento Ue 1151/2012 questi prodotti “rappresentano un punto di forza e un vantaggio competitivo importante per i produttori dell’Unione e sono parte integrante del suo patrimonio culturale e gastronomico vivo”. Altra caratteristica specifica, le denominazioni sono un regime di proprietà intellettuale che coinvolge imprese private e autorità pubbliche e sono espressione di una pluralità di soggetti diversi. Nel senso che non esiste un’impresa che detiene il marchio, ma un insieme di imprese private associate si sottopongono a oneri di produzione maggiori (il cosiddetto disciplinare di produzione) rispetto alle altre imprese per godere di un marchio di garanzia che è conferito dai poteri pubblici. In Italia, questo sistema poggia su una rete di 247 consorzi di tutela riconosciuti dal Ministero delle politiche agricole

    Questa natura ‘ibrida’ – economica e culturale, privata ma di interesse pubblico, singolare e collettiva – rende il sistema europeo delle indicazioni geografiche qualcosa di unico al mondo, difficile da esportare in altri ordinamenti giuridici. Lo standard internazionale di protezione è il marchio registrato, la tutela rinforzata che l’Ue accorda alle Dop e Igp è qualcosa di molto di più e di molto diverso. Nel mondo, inoltre, esistono più di 10mila Ig tutelate, con regimi giuridici e requisiti diversi. Un mosaico di sistemi di protezione che complica il commercio internazionale delle Ig e la loro tutela effettiva nel mercato globale.

     

    Eppure Dop e Igp continuano a rappresentare un importante fattore per le esportazioni. Negli ultimi dieci anni l’export italiano di Ig è aumentato del 140% ed è arrivato a superare il 21% del valore totale delle esportazioni del settore agroalimentare, con una tendenza all’aumento che si conferma di anno in anno.

     

    Secondo uno studio dell’Università di Milano, inoltre, i prodotti a indicazione geografica fanno da ‘traino’ alle esportazioni di prodotti agroalimentari dello stesso tipo, anche senza marchio di qualità, con un impatto benefico sui paesi che li esportano, sia a livello Ue che fuori dall’Ue.

     

    Almeno a livello nazionale, le eccellenti performance sull’export finiscono per essere appannaggio delle realtà più grandi e affermate. Secondo il Rapporto Ismea-Qualvita dedicato al settore, tra i vini cinque Dop coprono da sole oltre il 40% del fatturato totale e lo stesso numero di Igp copre oltre il 69% del fatturato totale del comparto. Tra i prodotti alimentari le percentuali sono ancora più schiaccianti, con quattro Dop tra i formaggi e altrettante tra i prodotti a base di carne che fanno l’80% del mercato.

    E’ questo il contesto in cui Dop e Igp sono diventate parte integrante della strategia di accordi commerciali bilaterali che l’Unione europea ha iniziato a stringere con molti paesi nel mondo. Le indicazioni geografiche sono il golden standard, l’eccellenza che l’Ue cerca di esportare con liste di prodotti, che possono esservi anche aggiunti nel tempo, su cui chiede protezione.

     

    Un approccio pragmatico dettato anche dalla disomogeneità economica del sistema europeo. Ma, come abbiamo visto, le indicazioni geografiche sono anche faccenda di identità culturale e ci sono produttori che si sentono ingiustamente esclusi dalle liste. Le eccezioni alla tutela, inoltre, diventano sempre più numerose, anche a causa dell’attività di lobbying internazionale dei detentori di marchi di ‘Italian sounding’. La tutela rinforzata è, infine, è tutta da costruire quanto ad applicazione pratica nei paesi terzi.

     

    In Italia, che ha nell’Italian sounding un problema più forte di altri paesi europei, queste circostanze hanno sollevato perplessità, quando non critica aperta, all’approccio dell’Ue. “Gli accordi commerciali stipulati fino a oggi sono bicchieri mezzi pieni, non mezzi vuoti, e non possiamo rinchiuderci nella fortezza Europa”. Da qui bisogna partire secondo Leo Bertozzi, segretario generale dell’Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche (Aicig). “Certo – conviene Bertozzi – la situazione è cambiata da quando l’Ue ha iniziato a usare le liste, anche perché c’è più pressione da parte dei nostri concorrenti globali, che si battono per definire ‘generiche’ denominazioni che non lo sono affatto, con una struttura di lobbying da 15 milioni di dollari. Bisogna chiarire alcuni punti, come individuare l’autorità che assicura l’applicazione degli accordi nei paesi terzi. C’è la necessità di dare ai negoziatori della Commissione europea un interlocutore unico per stabilire la lista di prodotti da proporre e supportarli in negoziati che sono sempre più delicati. Ma il sistema è relativamente giovane, non sorprendiamoci se ci sono punti da chiarire. L’importante è che il dialogo vada avanti, sia con l’Ue che con i partner commerciali. Chiudersi non è un’opzione”