Yari Lepre Marrani è saggista, giornalista culturale e scrittore. Su l’Avanti! cura una rubrica di carattere storico, ed è redattore del Centro Studi Machiavelli e di Notizie Geopolitiche.
Gazzetta di Milano lo ha intervistato sulla situazione internazionale
Quali implicazioni giuridiche e diplomatiche comporta l’accusa formale di genocidio mossa dalla Commissione ONU contro Israele, e quali scenari si aprono per la Corte Penale Internazionale?
Occorre preliminarmente fare una distinzione tra le due giurisdizioni: quella della CPI e quella della Corte Internazionale di Giustizia. La CPI, conosciuta anche con l’acronimo di ICC( International Criminal Court) è un tribunale per crimini internazionali con sede all’Aia, in Olanda. Fondata nel 2002, ha competenza per i crimini più rilevanti che riguardano la comunità internazionale: il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e di aggressione ma non è un organo dell’ONU come la seconda. La CPI ha una competenza complementare a quella dei singoli Stati. Nel caso di Netanyahu, entrambe le Corti si sono espresse per condannarne i crimini e ciò rende la posizione del primo ministro israeliano ancora più delicata perché le sentenze e i pareri della CIG sono uno dei principali strumenti con cui si accerta il rispetto di norme internazionali ma la CIG, a differenza della CPI, non può emettere mandati di cattura internazionale. Il 21 novembre 2024, come noto, aderendo alla richiesta del Procuratore Capo, la CPI ha emesso i mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della Difesa Gallant e il leader di Hamas Deif di cui la Corte ha detto di non essere in grado di confermare la morte, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità per la guerra a Gaza e gli attacchi del 7 ottobre che hanno innescato l’offensiva di Israele nel territorio palestinese. Ma Israele non ha firmato lo Statuto di Roma che ha creato la CPI e, di conseguenza,non ne riconosce la giurisdizione. Giuridicamente, tutti gli Stati che riconoscono la giurisdizione della CPI, sono tecnicamente obbligati ad arrestare e consegnare i sospettati, se dovessero mettersi in viaggio verso il loro territorio. Considerato l’evolversi degli eventi e il recente accordo di Shamr el – Sheikh, sarà molto difficile se non impossibile che uno Stato firmatario dello Statuto di Roma abbia il coraggio fondato e legittimo di far arrestare Netanyahu se quest’ultimo entrerà nel proprio territorio: le convenienze diplomatiche occidentali, con particolare riguardo al ruolo egemonico degli USA, principali alleati e amici di Israele, renderanno difficile se non impossibile l’arresto di Netanyahu così si andrà incontro ad un bieco e vile caso di impunità di un politico di cui, giuridicamente, sono state confermate le responsabilità militari per la reazione abnorme e sproporzionata di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Ipotesi di impunità che molto probabilmente si rivelerà reale anche per la struttura stessa della CPI, che non è dotata di un corpo di polizia internazionale.
Come si sta evolvendo la situazione umanitaria ad al-Mawasi, dove si concentrano quasi un milione di sfollati palestinesi, e quali sono le responsabilità internazionali nella gestione di questa crisi?
La spiaggia della città di Gaza è oggi travolta da decine di migliaia di sfollati, costretti ad abbandonare le loro case a causa dei bombardamenti israeliani. Ma l’accordo di pace non ha certo migliorato le condizioni oggettive di queste persone. Il rumore delle bombe che tornano a cadere su Rafah arriva fino al campo profughi di Al Mawasi. La situazione degli sfollati ad al-Mawasi rimane molto precaria, anche ad otto giorni dall’ordine di cessate il fuoco. Israele ha lanciato pesanti attacchi aerei su Gaza nelle ultime ore, causando almeno 33 morti. L’entità sionista ha bombardato diversi siti a Khan Younes, oltre a prendere di mira un campo profughi ad al-Mawasi e una casa nel campo di al-Bureij. Il tutto annunciando contemporaneamente la sospensione di tutti gli aiuti a Gaza. Da quando l’accordo di cessate il fuoco è entrato in vigore otto giorni fa, le forze di occupazione sioniste hanno lanciato almeno 129 attacchi nella Striscia di Gaza, portando al martirio almeno 34 palestinesi. Se dovesse riaccendersi la miccia, Israele si troverebbe contro una gran parte del mondo, tranne i suoi alleati occidentali, Stati Uniti in primis, ma anche l’Italia e gran parte dell’Europa connivente ad esclusione della Spagna di Pedro Sanchez, quest’ultimo l’unico capo di Governo rimasto con la schiena diritta e, forse, senza quella coscienza macchiata di altri suoi colleghi. Le parole di Sanchez sono inequivocabili: “Pace non significa impunità. Attori del genocidio devono rispondere alla giustizia”; Il premier spagnolo ricorda il mandato di arresto per Benjamin Netanyahu emesso dalla CPI e assicura che l’embargo di armi deciso da Madrid per Israele “si mantiene”. E’ molto importante la postura assunta da Sanchez per riequilibrare una situazione troppo tollerante verso Israele, quel misto di vigliaccheria diplomatica e connivenza criminosa verso Netanyahu che porterà, ahimè, alla sua impunità. Su questo non sono affatto ottimista.
In che modo l’uso di tecnologie belliche come i robot-killer e i blindati telecomandati sta ridefinendo la natura del conflitto urbano a Gaza City, e quali sono le implicazioni etiche e militari?
I c.d. robot-killer sono veicoli blindati “riconvertiti” per essere caricati con tonnellate di esplosivo e vengono teleguidati sull’obbiettivo. Questi “robot bomba”, che spesso sono vecchi blindati M113 dismessi e modificati per questo scopo, vengono guidati a distanza fino a obiettivi urbani e fatti detonare. Testimonianze giornalistiche e analisi sul campo confermano che non si tratta di piccoli ordigni improvvisati, ma di cariche capaci di provocare demolizioni massicce e onde d’urto avvertite a grandi distanze. Le detonazioni possono raggiungere, quindi, una potenza esplosiva considerevole e devastante. L’utilizzo di questi ordigni è impiegato soprattutto per limitare l’esposizione viva dei soldati sul fronte, evitandoli di entrare in edifici ritenuti trappole o in zone con elevati rischi di trappole, imboscate ecc. Restano gli effetti pratici militari di questi “robot – bomba” che sono devastanti: oltre a morti e feriti tra i civili, le detonazioni danneggiano o distruggono abitazioni, strutture e infrastrutture. Le esplosioni generano potentissime onde d’urto che danneggiano edifici a distanza e costringono migliaia di persone a spostarsi, aggravando la crisi umanitaria. Le implicazioni etiche e militari si intrecciano perché, da una parte, l’offensore cerca di risparmiare o tutelare la vita dei propri soldati, mentre l’offeso(Gaza) risente fortemente della potenza di questi ordigni: nei trattati e convenzioni internazionali non esiste un divieto per questo tipo di arma, ma il loro uso in aree civili può essere problematico. Il discorso ruota sempre attorno al medesimo problema: l’utilizzo di ordigni ad alto potenziale distruttivo in zone civili, con potenziali danni alla popolazione anche più elevati rispetto all’utilizzo di armi più convenzionali, come i soldati, i carri armati, la fanteria.
La risposta dell’Unione Europea, espressa da Kaja Kallas, è sufficiente a fronte della gravità della crisi? Quali misure concrete potrebbero segnare un vero cambio di rotta nella politica estera europea?
Come da me già segnalato in un recente articolo su NG(Notizie Geopolitiche), https://www.notiziegeopolitiche.net/palestina-la-tragica-e-commossa-fine-dei-gazawi/, le dichiarazioni della Kallas sono proporzionate alla totale inadeguatezza politica, militare e sociale dell’UE. Di fronte alla più grande carneficina del XXI secolo, sembrano perdersi nel vuoto di una malcelata indifferenza le parole di Kaja Kallas, rivestente la carica di Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (Pesc) nella Commissione von der Leyen, la quale si è limitata, prima di Sharm el-Sheikh, a dichiarazioni stantie affermando che l’UE dovrà adottare misure “per un chiaro segnale ad Israele”. Più generico di così non si potrebbe. L’UE opera e pensa al traino del suo dominatore politico, gli USA. Basti pensare, ed è notizia del 21 ottobre cioè di martedì scorso, che l’Ue si appiglia alla fragilissima tregua per congelare le sanzioni a Israele. Le opinioni degli Stati membri restano “molto divergenti”, ha ammesso Kaja Kallas annunciando che per ora “non procederemo” con le misure “vista la fragilità della situazione sul campo”. In gioco c’è il ruolo stesso dell’UE su un panorama internazionale così delicato e complesso, e la sua responsabilità di continente unito solo economicamente e non politicamente e militarmente. Le divergenze tra gli Stati membri dell’UE sono la prova di questa intrinseca e grave debolezza militare prima che politica. I ministri degli esteri dei 27 paesi UE hanno deciso di congelare le sanzioni ad Israele anziché applicarle, cosa che avrebbero dovuto fare anche di fronte all’accordo di pace, per mantenere una pressione forte su Netanyahu, che, come anticipato, rischia un futuro di impunità anziché di condanna. Kaja Kallas ha affermato testualmente “Al momento non procediamo, ma non le escludiamo nemmeno“: giustissime le critiche mosse da più parti di incapacità di giocare un ruolo politico e militare nella risoluzione del conflitto da parte dell’UE. L’UE è come un carro servile a traino del cavallo dominatore, gli USA. Purtroppo è così e non sembrano esserci cambiamenti epocali in vista.
Il sostegno esplicito del presidente Trump a Netanyahu, in un contesto di accuse internazionali di genocidio, come incide sulla percezione globale del ruolo degli Stati Uniti nel conflitto israelo-palestinese?
La risposta è stata data dalle innumerevole manifestazioni pro-pal svoltesi in tutto il mondo, con particolare attenzione all’Italia, dove il 22 settembre 2025, uno sciopero nazionale ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, con disagi in diverse città e l’arresto di alcuni attivisti. La reazione del mondo popolare è stata caratterizzata da fiamme di rabbia, talvolta espressa anche in comportamenti violenti contro le Forze dell’Ordine, che pure vanno condannati ma sono, in realtà, anche specchio della percezione di disinvoltura con il quale Trump sostiene a spada tratta le politiche genocidarie di Netanyahu, mascherando l’orrore patito dai gazawi attraverso un teatrino diplomatico che sigilla ancora di più l’amicizia tra il capo della prima superpotenza del mondo e un primo ministro accusato giuridicamente di crimini di guerra e contro l’umanità. Basti solo pensare che Trump, negli ultimi anni, ha iniziato a trattare la CPI come organizzazione quasi para-terroristica, e a diffonderne tale immagine nel mondo. Inevitabile che tale condotta priva di ogni parola di condanna, abbia suscitato la grande protesta globale. Le proteste contro la guerra di Gaza si sono verificate in tutto il mondo per contrastare la guerra Israele-Hamas. Tali proteste si sono di volta in volta indirizzate su diverse tematiche legate al conflitto, tra cui la richiesta di un cessate il fuoco, la fine del blocco e dell’occupazione israeliana, la protesta contro i crimini di guerra, e la fine del sostegno degli USA a Israele: quest’ultimo punto è il più importante rispetto alla domanda. Gli USA non hanno mai smesso di sostenere Israele neanche nei mesi più drammatici dello sterminio quotidiano dei gazawi. Il conflitto ha anche scatenato grandi proteste presso le ambasciate israeliane e statunitensi in tutto il mondo. Una ricerca dell’Armed Conflict Location and Event Data Project ha indicato che dal 7 ottobre al 24 novembre 2023 si sono verificate almeno 7.283 proteste pro-palestinesi e 845 proteste pro-Israele in tutto il mondo.
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