Lugano, giovedì 27 agosto
Sergio Roic presenta
Giuseppe A. Samonà
LA FRONTIERA SPAESATA
Un viaggio alle porte dei Balcani
Collana Scritti Traversi
Exòrma edizioni
Un evento Poestate 2020 – Evento – Spazio1929 , in collaborazione con Linguafranca e con il contributo del Centro PEN Svizzera TI-GR
Mia Leconte su Nazione Indiana In uno dei pochi accenni autobiografici di questo libro meravigliosamente “estro-verso” – sempre oltre l’autore, altrove, all’ascolto della comune umanità nel tempo – Giuseppe Samonà-bambino chiede al padre: “Come mai gli uomini si spostano?”. Ormai adulto, forte dei molti spostamenti geografici e linguistici con cui ha costruito il proprio percorso di studioso e scrittore, prova ora a rispondersi/ci avvicinando la lente di ingrandimento a un’area geografica esemplare, coagulo di transiti e destini, paradosso di frontiere. Trieste, la Slovenia, Zagabria… l’Istria dove “ci sono moltissime cittadine, villaggi pieni, meno pieni, vuoti… Ci sono moltissime isole, grandi e piccole”, come recita giocosa la prima delle cartine manufatte disseminate tra le pagine del volume, che apre agli “itinerari di questo libro”. Forse sono proprio queste mappe, e le piccole fotografie commentate con cui si alternano – opera della “compagna di viaggi” dell’autore, Sophie Jankélévitch – a dirci di che cosa si stia davvero parlando. Lievi, poetiche, fanno da controcanto al testo, come le didascalie di un film muto, o la descrizione dei miracoli negli affreschi di un santo popolare. Perché questo è anche il diario del viaggio preannunciato dal sottotitolo, o meglio ancora una «ipotesi di percorso, nello spazio e nel tempo, e di riflessione, contemplazione», come puntualizza l’autore nella postfazione; ma il significato del viaggiare in questione, di questo percorrere ragionato e contemplativo, è tutt’altro che scontato. Nei libri di viaggio, l’autore è spesso troppo presente, ingombrante. Qui, attraverso i continui riferimenti e rimandi storici, letterari, la presenza è lasciata agli altri. L’autore osserva e si osserva camminare, esiste solo nei paesaggi delicatamente saturi di colore, nelle architetture, nel fuggevole ricordo di alcuni luoghi – altri viaggi, la sua Sicilia – coerente al proposito dichiarato di “scomparire” dietro ai suggerimenti, nel riverberare altrui. Passo a passo – il ritmo della marcia, un’incalzante lentezza, è il principale strumento di osservazione e continuiamo a “sentirlo” anche dopo aver interrotto la lettura – Samonà ci fa entrare nel suo raggio d’osservazione, in questo frammento ingrandito di mondo: un brulichio intelligente e documentatissimo di Storia e storie, luoghi, date, eventi, opere, personaggi, scrittori, poeti, musicisti, artisti…; politico, realmente politico, e lirico, in un abbraccio diacronico senza gerarchie. Il viaggio promesso sta dunque in questo appassionante corteo, ritmato e promiscuo, di uomini e gesta; che è poi lo stesso procedimento adottato dall’autore nel suo precedente Quelle cose scomparse, parole, dove a brulicare, a copulare fertili erano le voci esponenziali del proprio glossario personale. Ma più si entra nei dettagli delle vite, delle vicende, delle molte opere citate – più la lente s’avvicina per ingrandire – e più l’immagine perde di realtà. Come quelle piantine, quelle fotografie, che dovrebbero essere lì per testimoniare un percorso, e invece ci raccontano di un sogno, un’illusione. A mano a mano che ci lasciamo portare per questi luoghi, si fa sempre più evidente l’idea che questo viaggio e il suo viaggiatore-assente – la zolla esemplare di mondo e lo sguardo al di là della lente – si alimentino dello stesso s-paesamento, un «décalage che mette a loro agio tutti i décalés». Dove l’unica realtà sta nelle parole: quelle che Samonà usa sapientemente come una formula magica per dare consistenza alla verità fugace delle cose umane; e quelle della lingua che ha inglobato le frontiere in un nome composito e si è fatta carico delle lacerazioni. Nell’esemplare variazione di tempo che si dispiega nelle pagine di questo libro, cadenzata dai passi del viaggiatore Samonà, arpenteur dell’impermanenza, non sono solo le frontiere geografiche o linguistico-culturali a spaesarsi, ma anche quelle “tra follia e normalità, o persino tra maschile e femminile, tra uomini e animali e magari, perché no, fra sentimenti, fra desideri”, che restano appese al vuoto come bandiere lacerate. |
Giuseppe A. Samonà |