La trasgressione

“Tras-gredire” vuol dire “andare oltre”: oltre la legge. Ciò non significa che, dopo l’atto trasgressivo, la legge non debba riconsiderarsi alla luce dell’infrazione che ha subito.

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A sentire Michel Foucaultla trasgressione è un gesto che riguarda il limite, perché il tratto che essa incrocia e spezza si ricompone alle sue spalle come un’onda di poca memoria dietro lo scafo di un’imbarcazione che l’ha solcata. Limite e trasgressione devono l’uno all’altra la densità del loro essere. Non c’è limite all’infuori del gesto che l’attraversa. Non c’è gesto se non nell’oltrepassamento del limite.

La trasgressione non sta quindi al limite, come il bianco sta al nero, come l’escluso all’incluso, come il permesso al proibito. Ciò verso cui la trasgressione si scatena è il limite che la incatena. La trasgressione è la glorificazione del limite.

Come ci ricorda Georges Bataille, la solennità del comandamento “Non ammazzare” seguito dalla benedizione degli eserciti non è tanto una contraddizione, quanto la prova che la trasgressione del divieto non è meno soggetta a regole di quanto lo sia il divieto stesso. In questo senso, si può dire che la trasgressione non infirma l’intangibilità del divieto, ma semmai lo ribadisce e lo completa. La trasgressione non è dunque la celebrazione della libertà. Il suo andamento non è licenzioso, osceno, violento, ma ritmico come un passo di danza, dove ad ogni ritrarsi corrisponde un balzo in avanti, in quel gioco rituale tra sacro e profano, dove, come ci ricorda Bataille, ad essere «profanato» non è il sacro, che è piuttosto il mondo della festa dei sovrani e degli dèi, ma il pro‑fano, nel quale, fuori dal tempio (fanum), si svolge la vita di ogni giorno, scandita dalle regole del lavoro e da quei divieti che la festa infrange, consumando, in una prodigalità che ignora ogni misura, i beni raccolti nei giorni feriali.

Sacra è la legge impartita dai sovrani e dagli dèi, che, proprio perché la emanano, ne sono al di fuori, e quindi abitano la trasgressione. Ai sovrani e agli dèi tutto è lecito, e di questa liceità partecipano i sudditi e i fedeli quando si celebrano le feste dei sovrani e degli dèi. La festa, infatti, non sospende i divieti, ma permette che si compiano atti di regola vietati. Introducendo in tal modo la trasgressione, la festa ribadisce il divieto. Per questo le religioni, dove massimamente si raccolgono i divieti, introducono le feste “comandate” e nelle feste, come dice Bataille, «ordinano le trasgressioni».

Offrendo un’esca al godimento se ne assicurano il servizio, per cui la festa diventa paradossalmente il principio della rinuncia. Inoltre, concedere la festa e mostrare di poterla concedere è il modo più sicuro con cui un potere o una religione può rafforzare la garanzia del futuro. Anticipando in piccola misura il godimento, dimostrano di possederne il segreto e di essere pronti a ripartirne il beneficio. Alla fine, ciò di cui i sudditi o i fedeli inconsapevolmente godono non è della trasgressione festiva, ma del privilegio, del prestigio e dell’autorità di coloro che, in particolari momenti, possono sospendere la legge e concedere la trasgressione.

Oltrepassandoli, la trasgressione ribadisce i margini del discorso, dal di fuori lo fa funzionare meglio. Col dispendio senza limiti, con la prodigalità incontrollata, la festa, investendo le riserve, inaugura un altro ciclo di produzione, sospende provvisoriamente il sacrificio e la rinuncia, per riaffermarli nella loro radicalità. Per questo il discorso festivo non corre alcun rischio.

Sempre seguendo Bataille, nelle pagine dell’Erotismo dedicate alla trasgressione, nella parodia delle istituzioni che si celebra nella festa, dai saturnali degli antichi romani ai carnevali delle nostre società, la negazione di ogni gerarchia e il rovesciamento in commedia di ogni dramma umano avvengono sotto una maschera che consente a ciascuno di non mettere a repentaglio la propria testa, perché tanto, nel concetto comune, tutti, nel giorno di festa, l’hanno già perduta.

Il rischio è inscritto in quel calcolo che prevede che ogni godimento si paghi, e non solo con la fatica necessaria per ottenerlo, ma anche col senso di colpa inevitabile per poi espiarlo. Non c’è pedagogia che non si avvalga di questa versione della festa e del godimento, o di questa con-versione della trasgressione nella legge, con la forma negativa di un codice già dato o con la fondazione di un codice nuovo.

Un’esplosione serve a rilanciare un ciclo, e debordare dai limiti serve per padroneggiare la novità degli elementi. L’estensione della festa sino ai margini e alla periferia è la massima sfida nei confronti della deriva, del nomadismo che, attraverso la festa, o vengono recuperati all’ordine e all’istituzione, o, se ciò non accade, consentono all’ordine e all’istituzione di confermarsi nella loro ortodossia, che sempre ha bisogno dell’altro, dell’emarginato, del diverso, del trasgressivo, di colui che, incurante dei tempi, prosegue oltre misura la festa.

Come violazione dei divieti secondo regole previste dai riti e dai costumi, la trasgressione non ha nulla di scandaloso o di sovversivo, non conosce la potenza del negativo, non scivola nel no della distruzione, non dissolve il mondo, ma semplicemente gioca con i suoi fondamenti e con le sue regole. Non essendo una negazione generalizzata, né un’affermazione che ribadisce qualcosa, la trasgressione percorre ogni evento non per negare esistenze e valori, ma per condurre ogni esistenza e ogni valore nei propri limiti. “Tras-gredire” significa infatti “camminare oltre”, oltre la legge, all’unico scopo di farsi riassorbire da essa, che però, dopo l’evento trasgressivo, deve darsi una nuova formulazione che tenga conto della trasgressione avvenuta. Senza trasgressione, la storia sarebbe immobile, come immobile è la vicenda animale che da sempre ripete sé stessa.