Meneghin si racconta in attesa del gran giorno.

Istantanee. Momenti. Frammenti di gloria. Ogni campione ha avuto il suo “Momento”.  Dino Meneghin ebbe il suo, anzi ne ebbe molti, ma a Losanna il 2 aprile 1987 contro il Maccabi, la Coppa dei Campioni inseguita da anni, da un gruppo che cercava la convalida internazionale, il numero 11 dell’Olimpia sentì le gambe cedersi sul lay-up che avrebbe certificato la vittoria, “un sollievo per me che quattro anni prima a Grenoble, contro Cantù, la stessa coppa in palio, giocai la peggior partita della mia vita e ancora adesso la soffro”. Solo che Meneghin sbagliò il lay-up, non perché fosse persino troppo facile, ma perché era infortunato e dopo 40 minuti di battaglia non aveva più nulla nelle gambe. Esplosero i crampi. Meneghin lungo sul parquet ad allungare i muscoli, a caccia non tanto di sollievo, ma degli elettroliti necessari per finire la partita. Per rialzarsi. Difendere. Salvare il risultato. Meneghin è un tipo brillante, divertente, che non si prende mai sul serio. E’ sempre stato così. Ma in campo, in campo era un guerriero senza macchia, senza paura, il più duro dei duri. Si rialzò. Quell’immagine da guerriero ferito che si ribella alla sorte, al dolore, alla fatica rappresenta tutto Meneghin.

Il 19 novembre la maglia di Dino Meneghin verrà ritirata dall’Olimpia Milano, la squadra con cui ha vinto cinque scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Korac, due Coppe Italia. La cerimonia si svolgerà durante l’intervallo della partita con il Maccabi, rivale storica alla quale Meneghin è sempre stato legato da stima reciproca. “Con loro ho un feeling particolare, che dura da 50 anni. La prima volta che li ho incontrati è stato nel 1966 o 67, a Tel Aviv. Giocavano in questo palazzo, che poi era un’arena all’aperto, con le piastrelle sul pavimento, le panchine un po’ sottoterra, come nel calcio. Da allora li ho incontrati quasi ogni anno, con Varese, Milano, con la Nazionale. Ho sempre apprezzato signorilità, sportività, organizzazione, voglia di fare bene, questo spirito un po’ americano di creare sempre qualcosa di importante. Per loro io rappresentavo una persona che lottava, che non si arrende e cerca sempre di dare il meglio. Sono orgoglioso dell’amicizia che mi lega a loro ed è proseguita dopo il ritiro. Quando hanno onorato Miky Berkovitz hanno invitato un gruppo di vecchie glorie, tra cui il sottoscritto. Mi lasciarono entrare per ultimo e ricevetti un’ovazione che mi ha commosso, eppure non giocavo da anni. Quella sensazione me la porto nel cuore”.

Dino Meneghin ha trascorso tutta la sua carriera con il numero 11, che lo identifica. “Nel 1965 giocavo in Serie B alla Robur et Fides. Nell’Ignis c’era un giocatore, si chiamava Toby Kimball, un bianco con un bel fisico. Solo che andò via e mi dissero, “dai prendi l’11”. Non mi hanno detto di scegliere, avevo 16 anni e non potevo scegliere nulla. Così l’ho tenuto, mi piaceva, e poi negli anni mi sono accorto che tanti grandi centri europei giocavano con l’11. Cosic, Tkachenko, il bulgaro Golomev, il ceko Zidek. Mi piaceva, ma sembrava quasi fosse il numero dei centri in Europa”.

Nel 2003, Meneghin è diventato membro della Hall of Fame di Springfield, la culla del basket. “E’ stata un’esperienza straordinaria, che devo a Dan Peterson. E’ stato lui l’artefice, si era occupato di tutto quello che serviva per presentare la candidatura, la selezione è durissima. Bisogna andare a Springfield per la cerimonia e io ero in Svezia con la Nazionale. Dovevo essere accompagnato, ma mia moglie ha paursa e non vola, mio fratello non poteva lasciare il lavoro, Andrea era in Nazionale. Allora invito Dan e insieme scriviamo il discorso. Arrivati all’aeroporto, arriva un tipo che ci porta i bagagli, poi arriva una limousine bianca. Ho detto al Coach che stava arrivando qualche attore, invece era lì per noi! Salgo sul palco e c’è Bob McAdoo che fa la mia presentazione: io e Dan Peterson avevamo un discorso. Ma Bob dice le stesse cose che volevo dire io!!! Alla fine me ne sono fregato. Lì davanti – prosegue – avevo davanti James Worthy, Robert Parish, Bill Walton, Larry Bird, George Gervin. La mia paura, un terrore, era che arrivasse qualcuno e mi dicesse “Sorridi, sei su Scherzi a parte”. Quando è finita, ho tirato un sospiro di sollievo”.

E ora ci sarà un’altra cerimonia, quella del ritiro della maglia da parte dell’Olimpia: “Vedere l’11 sulle spalle di qualche giocatore mi ha sempre fatto piacere, mi ricordava quando giocavo io. Ma vederla ritirare, lo considero un orgoglio, un privilegio riservato a pochi, che mi onora. E’ un privilegio che va a me ma idealmente a tutti quelli che mi hanno accompagnato. Un po’ come a Springfield: c’è la mia brutta faccia attaccata al muro, però idealmente ci sono tutti quelli che in questo treno che ha percorso tutti questi chilometri sono stati con me. E’ un po’ il punto finale della mia carriera. Nessuno è più degno di vestirla? Non è così, ma se pensi alla storia dell’Olimpia dovrebbero ritirare tutte le maglie dal 5 in avanti, visto che il 4 non lo usiamo”.

Dino Meneghin venne acquistato da Milano nell’estate del 1981. Fu una svolta epocale per il basket italiano, perché fino ad allora Dino Meneghin era stato sinonimo di Varese: cresciuto in città, membro delle giovanili e poi stella di una squadra cinque volte campione d’Europa. Ma Varese doveva ripartire e cedendolo mise a posto tante cose.  La storia del suo arrivo a Milano, la racconta Dino stesso. “Avevo due offerte, di Venezia e Milano. Scelsi Milano perché era una società con grande esperienza e storia, che puntava a vincere, ben organizzata con pochissime persone che decidevano: Gabetti, Cappellari e Dan Peterson. A Varese era stato così con Borghi, Gualco, Nikolic e gli altri allenatori. Poi era vicina a Varese, ero legato alla mia famiglia, genitori, fratello, mio figlio. La vicinanza è stata decisiva.

“Mi chiamavano Dottor Gibaud perché mi sono fatto male tante volte. A Milano mi vedevano come fumo negli occhi, ero un rivale – prosegue Dino -. Arrivo e mi faccio male. Fu un colpo al morale pazzesco. Farsi male a 20 anni è una cosa, a 31 un’altra. Pensavo al recupero, ma anche a quelli che mi avevano preso e avevano il diritto di mettersi le mani nei capelli, anche se non me l’hanno mai fatto pesare. I tifosi dicevano che ero vecchio. Il primo mese lo feci da solo nella palestra in alto al Palalido con Claudio Trachelio. Non una parola, una pressione da parte della società.

“Ricordo la prima partita, a Rieti. La prima azione in difesa, prendo il rimbalzo e sento dire “Bravo Dino”. Era Roberto Brunamonti, era ed è un mio amico: mi incoraggiava perché era la prima azione da giocatore che facevo dopo tanto tempo. Gli avversari li consideri nemici, ma poi capita che siano invece persone straordinarie.

“Avevo un contratto di due anni, pensavo di giocare due anni e poi smettere. Ma un giorno, Peterson mi disse che avrei dovuto pensare alle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles. Dissi sì, come no? Pensavo fosse pazzo, ma può essere che mi abbia dato una sveglia al cervello e spinto a pensare positivo. Poi ho avuto la fortuna di venire a Milano e giocare con grandi campioni, con Mike D’Antoni, John Gianelli, Roberto Premier, Vittorio Gallinari, Franco Boselli. Non erano solo compagni di squadra, ma persone straordinarie con le quali ero molto legato anche fuori del campo. Ricordo le cene a casa di D’Antoni o di Premier. O i dopo partita. Si era costruito un rapporto ottimale che andava aldilà delle gelosie. Era lo stesso che avevo a Varese con Bisson, Zanatta, Morse… E’ stata una fortuna”.