Semplicemente donna, conosciamo Patrizia Ferrato, counselor filosofico-teologico.

di Viviana Bazzani

D: Avete mai sentito parlare del counselor filosofico o del teologo? Ebbene, oggi ci deluciderà  in merito a questa nuova figura professionale, una donna eclettica e vulcanica… Patrizia Ferrato.

R:  Il counselor si occupa e pre-occupa della cura del sé. Aiuta ad avere maggiori consapevolezze in un momento di vita in cui ci si trova in difficoltà relazionali, esistenziali, comunicative, attraverso il dialogo. Quando affrontiamo dei cambiamenti importanti o attraversiamo dei nodi che ci sembrano invalicabili, abbiamo bisogno di essere ascoltati e supportati. I cambiamenti improvvisi, spiazzano. Eraclito espresse il pensiero sulla trasformazione con una metafora: Pantarei. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Il cambiamento ci fa perdere delle certezze fino ad esprimere disagio che si traduce in crisi. Per capire meglio: il counselor filosofico non usa test o strumenti di diagnosi. Attua un intervento mirato e personalizzato usando un pensiero logico-razionale, chiarificatorio e facilitatore per aiutare a rispondere alle domande in essere. Si instaura un rapporto interpersonale con un processo filosofico.

D: Quando nasce questa nuova professione e quali sono le sue origini storiche?

R: E’ abbastanza recente in quanto nasce in Germania nel 1981, come momento di ascolto, tra un consulente e un consultante. Sarà poi Ran Lahav a dare una grande svolta divulgativa inizio anni novanta.  Fu Achenbach che decise di portare la filosofia dalle accademie alla pratica suscitando molte polemiche. Anche se da allora si sta diffondendo, la pratica filosofica trova ostacoli legati alla mens delle persone abituate a rivolgersi ad altri specialisti in caso di disagio esistenziale.

D: Che cosa l’ha spinta a questa particolare attenzione alla ricerca della maggiore comprensione della propria spiritualità?

R: Ha ragione: ricerca. La mia domanda di fondo è capire chi sia l’uomo nelle varie dimensioni e trovo che il pensiero cristiano sappia rispondere in pieno con un senso. C’è molta confusione su che cosa si intenda per spiritualità pare che tutto sia spirituale. In realtà bisogna partire dall’ascolto e ascoltare che cosa si muove in noi; questo ascolto è consapevole che ciò che è esterno dialoga con l’interno. E’ un modo nuovo di immergersi nella vita senza estraniarsi, scendendo in profondità. L’identità spirituale ci viene offerta per grazia come azione di Dio presente nell’uomo. Se ci fosse tempo sarebbe bello parlare di Simon Weil, Romano Guardini o Ildegarda di Bingen per citare qualche nome, per comprendere meglio.

D: Le persone si avvicinano a Dio sopratutto nella sofferenza, non le sembra che Dio venga considerato un bancomat spirituale?

R: Quando soffriamo e parlo di grandi sofferenze, le nostre risposte le troviamo guardando il Crocifisso. Spesso strumentalizziamo Dio abbassandolo alle nostre volontà o incolpandolo di cose. Non funziona così. La notte al Getsemani ci insegna molto sulla disperazione e l’abbandono. Partiamo dal fatto che siamo popolo di Dio, e che i cristiani sono Battezzati e hanno un segno indelebile di questo sacramento; noi non siamo mai soli.

D: Come spiega la crisi delle vocazioni?

R: Con la secolarizzazione la crisi c’è e la chiesa è invitata a riflettere su questo. Il nuovo contesto richiede una nuova comprensione cristiana della fede; ma è crisi della fede o delle vocazioni? I legami storiografici tra la nostra cultura e il cristianesimo non si possono negare per cui la crisi Europea è anche la crisi dell’essere cristiano europeo. E anche qui dovremmo scrivere pagine intere. Sono domande davvero di un certo spessore. La pastorale ha una grande responsabilità sul da farsi, per questo il Concilio Vaticano II le ha dato molta importanza e la teologia deve procedere in modo fenomenologico ed ermeneutico.

D: La vita oltre la vita è una domanda che ogni credo religioso, dai tempi dei tempi, si è sempre posto. Abbiamo bisogno di certezze.  Come spiegherebbe ad un ateo che l’anima continua a vivere?

R: Il crocifisso risorto. La risurrezione . E’ questa l’evidenza. Noi se morissimo e basta, decreteremmo la fine di tutto. La vita, senza corpo, ritorna a Dio. La vita nuova passa attraverso l’esperienza della morte. La resurrezione della carne è una dottrina escatologica collegata alla resurrezione dei morti e al Credo, porta alla realizzazione del compimento e della salvezza delle anime. La fede nella morte e resurrezione di Gesù libera dal non senso irreversibile della propria morte. Si muore e risorge grazie alla potenza dello Spirito Santo. L’ uomo risorgerà nel suo corpo in quanto quel corpo porta in se stesso l’imago Dei. L’anima viene rigenerata con il battesimo per cui è eterna. Se guardiamo i filosofi a partire da Platone che le suddivideva a seconda della loro funzione , Origene con la sua metensomatosi, si sono enunciate molte teorie animiche.

D: Quando assistiamo a tragedie ci poniamo il problema…come può un “Padre” volere il male dei suoi figli?

R: Perchè invece non lo ringraziamo e lodiamo nei momenti di ben-essere? Il Padre non vuole il male dei figli ma lascia la libertà. Il dolore grida troppo forte quando viene e l’uomo avverte così un senso di ingiustizia che lo fa ribellare a quel Dio che lo permette. Vorrei trarre spunto  da Balthasar in quanto fa un parallelismo interessante tra la tragedia greca e la disistima divina. La tragedia greca è costruita sul mito e il rito che lo spiega. Essa ripiega all’indietro il mito verso al sua origine rituale, come una liturgia. Essa mostra il dolore degli uomini a una divinità che rimane ambigua tra partecipe e impartecipe. Il mondo greco avverte questo dolore come incomprensibile e si rivolge agli dei che restano essi stessi spettatori della tragedia: Antigone di Sofocle per fare un esempio. La tragedia diventa dramma con l’arrivo del Figlio nel cristianesimo e vi permane come Dio capo della Chiesa da lui convocata. La risposta la troviamo nella croce e, a volte, siamo chiamati a portarla. Dio è amore, non vuole il nostro male, ma la conversione dei cuori.

D: Nella sua interessante tesi “DOLORE BESTIALE”si pone la domanda se gli animali vedono Dio…quali sono state le sue conclusioni.

R: Grazie per la domanda. Oggi in moltissimi abbiamo un amico a quattro zampe in casa e proviamo sofferenza con la perdita. Rispondo subito dicendo: sì, gli animali vedono Dio, lo considerano come un Padre e pregano. Provano emozioni, piangono,ridono, soffrono. Andrebbero considerati come fratelli minori e Dio li ha messi accanto a noi affinché ce ne prendessimo cura. L’uomo invece vuole sempre dominare con la sua sete di potere. Come punto di partenza ci vorrebbe una ecologia dell’uomo. Con il mio lavoro ho fatto un viaggio nel mondo delle macellazioni rituali, facendo anche una fotografia dello stato ambientale alla luce del problema della desertificazione causato dagli allevamenti intensivi.

D: Viviamo in una società dove amore e valori vengono calpestati, come vede il futuro dei giovani sempre più catturati da un Dio tecnologico?

D: Il dio tecnologico è un idolotita. Ti rende schiavo e ti tiene in ostaggio dell’avere e del bisogno. Ti ripiega in te stesso, nella solitudine, togliendoti dalle relazioni. Il soggetto è condannato alle proprie banalità credendo nel godimento illimitato. Dio invece è relazione tra le tre persone. L’uomo ha bisogno di intessere relazioni, non è stato creato per stare da solo davanti ad oggetti che non parlano e pure venerati. Siamo figli di questo capitalismo-tecno-nikilista. Non siamo più in grado di leggere il presente. Spero che una teologia pastorale rinnovata sappia intrecciare il quotidiano con il Vangelo. Io credo nei giovani e credo che una riflessione in merito la stiano già facendo. Ci vorrebbe veramente un ponte tra gli abissi della caduta valoriale e la centralità del Vangelo.