I quattro cavalieri della Linea Lombarda: Carlo Porta.

Continuiamo il nostro viaggio nella poesia dialettale, a cura di Luisa Cozzi, che intervista Luis Balocchi su Carlo Porta (1775-1821), considerato il più importante poeta in milanese.

Qui, a Milan, qualcuno sa dove hanno sotterrato il Carlo Porta? Nessuno. Ché la sua tomba, semplicemente, la gh’é puu. Qualcosa, in verità, è rimasta. E’ l’epitaffio originale apposto all’ingresso del cimitero di San Gregorio al Lazzaretto, il camposanto della sua sepoltura. Oggi, è murato nella cripta di San Gregorio Magno. E la tomba, direte voi, chi fin l’ha faa? Come detto, la gh’é puu; e con essa quel cimitero fuori appena Porta Venezia, disfatto all’indomani, siamo alla metà dell’ottocento, dell’apertura del Monumentale.

Perché iniziare questo breve ricordo del più grande poeta in lingua milanese con un ben macabro rimando? Perché è paradigmatico del destino stesso del Carlin Porta, della sua opera tutta. In breve: dimenticati. Sì, l’è vera. A Milan, a tutt’oggi, una degna compagnia di suoi affezionati, continua a leggerlo, capirne la parola, il senso. Siamo però alla frutta. Di fatto, di Carlo Porta, il nòster Carlin come lo definiva il Tommaso Grossi, resta solitaria, forse ormai inopportuna, la statua scagazzata dai soliti pivion in fondo a la via Larga, là dove un tempo si apriva il mercato del Verzee.

“Vuna de sti mattin, tornand indree de la scoeura de lengua del Verzee…” scrive il nostro, nel celebre incipit de On funeral. E cosa succede al mercato del Verzee? Succede che il poeta, giusto lì, in quel garbuglio di gente minuta che traffica di tutto, che la vosa, la truscia, in tucc i maner la se da de fà, riceva “…tucc i erudizion che i serv e i recatton dan de solet a gratis ai poeta.” Ecco. Qui sta la parola, la visione, il cuore della poetica portiana.

El nòster Carlin el nass a Milan in del 1775, figlio di gente che la gh’ha i danee. Il padre lavora in banca, la madre ha buona dote. Prova a scrivere. Gli riesce bene. Come tutti i meneghini di allora, parla un milanese fluente. Non gli basta. Non gli basta di parlare la lingua che i secoli hanno tramandato. Fa di più. Vuole, di quella gente stessa, raccontare le storie, le vite. E’ così che nasce il Giovannin Bongee, il Marchionn di gamb avert, il Fraa Condutt, la Marchesa Cangiasa, il Meneghin che non ha peli sulla lingua. E’ così che, il nòster Carlin, opera la più grande rivoluzione della storia della letteratura di questo paese: dà voce a un personaggio che, il perbenismo, la puzza sotto il naso, il putrido borghesume dei vizi privati e delle pubbliche virtù, ha sempre schifato: la Ninetta del Verzee. Chi l’è? L’è, a dirla greve, ona loeuggia, una puttana. Che, in milanese, racconta la sua vita, il perché e il percome sia così finita. A differenza dei poeti d’oggidì che, il più delle volte, sono letti da una nicchia di esteti, nella Milano di allora, il nòster Carlin, viene letto dappertutto. Lo si legge nelle osterie, ai crocicchi delle strade. Lo conosce la gente bassa, quelle di cui lui stesso si è fatto voce. Al contrario, il potere accademico lo schifa. Quel trombone del Manzoni stesso, pur essendone amico, lo ripudia. Perché? Perché il dialetto, la lingua milanese, non fa comodo. Perché, già d’allora, l’uso della lingua ha una valenza politica. Se si vuole fare l’Italia, è giusto e sacrosanto parlare in italiano. Ed è così che, il nòster Carlin, vien messo da parte. Ed è così che, ad oggi, ai più, è del tutto sconosciuto. Ciò accade, come già detto, nella sua stessa Milano. Questa, per chi vi parla, è una vergogna.